Fatima e Maria: un modello per le femministe?

La morte di Lucia, ultima sopravvivente pastorella di Fatima, anziché avviare finalmente all’oblio l’ignobile vicenda delle presunte apparizioni, sembra avere perfino accentuato l’impeto dialogico dei suoi sostenitori, con improbabile ricadute. Per qualcuno, dopo avere “distrutto”, oggi le femministe dovrebbero “ricostruire”, ispirandosi proprio alla Madonna di Fatima; e tramite lei risalire alle radici della donna occidentale, rappresentate da Maria di Nazareth. Questo il contenuto dell’appello di Paolo Sorbi, sociologo, ex-sessattontino, ex-PCI e ex-Lotta Continua, ora presidente del cattolico Movimento per la vita; che si dichiara debitore di La Pira e persino “folgorato” da Padre Livio di Radio Maria. [1]
Si tratta, evidentemente, di uno dei tanti rilanci della politica antimodernista di Giovanni Paolo II, innestata sul  tradizionale retaggio di una Chiesa antifemminista. Ed il non credente, che già stenta a cogliere il presunto legame fra Fatima e Maria di Nazareth, non vede proprio quale attualità possano rivendicare le due posizioni.
Cominciamo da Maria, inneggiata soprattutto per il suo incondizionato “si” alla volontà di Dio,
che riecheggia nel Rosario. [2]
In realtà ben poche donne di questo mondo cattolico attuale frequentano la “scuola di Maria”.
Ma quali virtù vi si insegnano? Nei Vangeli si parla di accettazione del volere di Dio, umiltà, silenzio, acquiescenza di fronte al figlio-dio. Poco altro; qualcosa in più lo si trova nei vangeli apocrifi, ma nella costruzione del mito mariano la chiesa sembra non volerne tenere conto.
L’icona Maria, per tutti i cattolici, è una figura diversa, falsa ed immaginaria, ben lontana anche dalla tradizione della chiesa primitiva; un personaggio assemblato durante un processo millenario.
La Maria originaria, può ancora essere vista come una donna eccezionale, in base agli eventi cui prese parte o di cui sarebbe stata testimone, ma è decisamente una donna “umana”. L’altra Maria è invece un soggetto immaginario, disegnato dal desiderio dei suoi adoratori, scolpito a suon di dogmi; una donna progressivamente sempre più “disumanizzata”, e di converso spiritualizzata, non assimilabile al soggetto originario.
Secondo i Vangeli Maria concepisce virginalmente Gesù, ma la sua verginità (sessuale) non sarebbe stata perpetua, visto che si accenna a fratelli e sorelle di Gesù, ed in nessun punto si afferma che questi fosse figlio unigenito di Maria (oltre che di Dio). I teologi sostengono invece che la verginità (imenale) sia persistita perfino intrapartum; questione quanto mai assurda, ma tant’è, gli esegeti cattolici, per secoli, hanno cercato di cancellare dalla storia di Maria quanto più possibile ogni elemento che facesse risalire agli aspetti corporei della maternità.
Certo appare paradossale, ma nel pensiero cristiano la “incarnazione” del Verbo viene ad avere come contraltare dogmatico la “disincarnazione” di Maria!
Nella sua lettura del “Genesi”, Giustino, nel secondo secolo, vede Eva come fisicamente vergine e spiritualmente non macchiata dal peccato, prima della propria disobbedienza a Dio. Per cui Maria, che “spiritualmente” sarebbe la “nuova Eva”, per riparare a questa colpa, deve inevitabilmente, per contraltare, essere e mantenersi sia fisicamente vergine che pura. Questa tematica si fa più pressante nel medioevo, dominato dalla paura della morte e della dannazione eterna, allorché la venerazione per Maria, definita “mediatrice” per eccellenza fra uomini e Dio, si trasforma in vero e proprio culto, quasi fino all’idolatria. Allora verginità fisica e purezza di spirito (temi distinti nella pastorale del nostro tempo) divengono binomio inscindibile.
Il cristianesimo ad impronta mariana, dei secoli a venire, vede realizzarsi la santità soprattutto nella dimensione interiore, nell’esperienza esistenziale dell’affidarsi a Dio e del pregarlo. Maria, la “tuttasanta” è in questa luce, con San Bonaventura, il capolavoro di Dio. Da cui il “Tutus Marianus” o anche il “Totus tuus”. Così Teresa d’Avila voleva che ogni carmelitana divenisse “immagine vivente di Maria”, custodita nei monasteri, “colombaie della Vergine”.

La chiesa non è mai stata femminista. I primi secoli, o forse solo i primi decenni del cristianesimo, sembrano dare alle donne una visibilità ed un prestigio sociale superiore a quello vigente nel mondo romano, ma la protesta sociale espressa da queste donne non costruisce una vera e propria cultura femminile, quanto rappresenta invece una fuga dal contratto sociale per chiudersi nella propria dimensione interiore, a specchio del Vangelo. Gli schemi maschilisti, in questo modo, non vengono toccati; padri e  fratelli continuano comunque ad essere i direttori materiali e spirituali di tali donne. Il voto di verginità (del tutto contrario all’etica romana) non è una riappropriazione del proprio corpo, ma una protesta contro l’uso del proprio corpo da parte di altri. La donna “liberata” del cristianesimo non combatte per la propria autonomia sociale, ma per una propria via alla santità. La donna religiosa, che è il prodotto di questa nuova cultura, appare agli occhi dei romani una emarginata. Ma anche nel giudizio dei vari Agostino e Girolamo, l’esaltazione per la santa verginità gronda di disprezzo per la materialità del corpo femminile. In un mondo dominato dall’uomo, ben si capisce come il messaggio cristiano vada a genio a donne in rivolta verso l’uomo, a donne che con la propria scelta anti-maschile possono porsi in una condizione di intangibilità di fronte all’uomo, senza costruire tuttavia un mondo paritario a quello maschile.
Questo antifemminismo raggiunge l’apogeo durante il medioevo, l’età che crea i monasteri, ovvero i reclusori per le donne rifiutate dal mondo o che sfuggono al mondo. Nei monasteri la donna, spesso di alta estrazione sociale, può anche darsi una cultura; ma non a tutto campo, quanto quella sola che le permettono i maschi carcerieri. Ed all’interno di questa cultura le donne approfondiscono l’unica conoscenza a loro possibile, quella del proprio mondo emotivo, esprimibile in un universo di quasi solo donne; poi queste donne cominceranno a distorcere la propria immagine corporale, fino al rifiuto del corpo stesso, all’anoressia, alle penitenze corporali auto-inflitte. Il contatto col mondo esterno resta invece quasi esclusivamente quello dei momenti liturgici.
Dopo il medioevo, al modello del monastero viene spesso preferita quella forma particolare di celibato femminile che consiste nel dedicarsi alla vita interiore ed alla carità, pur restando nel proprio nucleo familiare. La donna che prima aveva di fronte a se due sole possibilità, la vita religiosa o quella matrimoniale, trova in queste nuove forme una certa libertà, ma non viene apprezzata dallo spirito della Controriforma.
Dopo il Concilio di Trento, le gerarchie cattoliche lottano per ripristinare le severe regole della clausura femminile e vietano le forme associative fra donne religiose al di fuori dei conventi. La cultura femminile delle monache si riduce allora a cultura strettamente claustrale; proliferano a dismisura le visionarie e mistiche, la cui attività è gradita solo in quanto uniformantesi all’ortodossia del clero dominante. Al di fuori del monastero, ma come specchio fedele della regola monastica, nello stesso tempo alle donne viene richiesto di essere in famiglia umili, silenziose, modeste, pudiche, devote e del tutto sottomesse al marito.
In seguito il cattolicesimo si "femminilizza”, e diviene dominio di mistiche e visionarie per lo più di estrazione popolare; donne semplici ed ignoranti, quanto in passato le claustrali erano spesso istruite ed aristocratiche. La donna diviene lo strumento della ricristianizzazione prima della famiglia e poi della società. Donne visionarie e soprattutto bambine visionarie, per lo più contadine, come a Lourdes e Fatima, diventano gli strumenti privilegiati di una nuova ondata di proselitismo.
Il mondo moderno sembra non toccare troppo i rapporti fra gerarchia ecclesiastica e mondo femminile, se non nella concessione di una crescente visibilità nell’utile esercizio delle opere sociali e di catechesi, anche per recuperare gli spazi lasciati liberi dal clero che si sconsacra.
La vera parità negli spazi del sacro è tuttavia sempre lontana, nonostante nel mondo civile le donne ottengano in tutti i campi libertà, riconoscimenti e parità mai prima godute, né forse sperate.
Secondo il Vangelo, le donne hanno dignità spirituale pari agli uomini; ma è pur vero che gli apostoli erano solo uomini, e che Gesù non hai mai auspicato un ruolo sociale preciso per le donne. E non appena la chiesa si è istituzionalizzata, le donne sono state escluse dai posti di responsabilità e poi di predicazione.
Maria sarebbe stata colei che rendeva massimamente fecondi il silenzio e il nascondimento (secondo i Vangeli, colei che " serba e medita nel suo cuore "); creatura soprattutto dell’obbedienza. Così la donna cristiana per eccellenza resta ancora oggi la donna che “accoglie”, passiva, proiettata al fantastico (turbata tuttavia dal sentimento e dalle sue ambigue emozioni), laddove il maschio teologo “produce” ed opera concretamente. Per tale motivo la donna non può dirigere il popolo di Dio e le si nega il sacerdozio; la donna che guarda a Maria è dunque una donna che rifiuta il nostro tempo e il nostro schema antropologico.
Negli ordini contemplativi la donna, condannata alla separazione dal mondo, adempie a funzioni ben precise e fortemente limitanti: la lode a Dio e la preghiera. Ma la psicologia e la psicoanalisi hanno lacerato non poco la coscienza di queste donne, suscitando loro dubbi, cadute di motivazioni moti di ripulsa.
Il modello mariano di perfezione celeste, che già pare in crisi fra le religiose, poco si adatta alle esigenze secolari. Nel mondo reale, la donna che imita Maria è un modello fuori contesto. La difesa del modello mariano presente a Fatima è difesa (ma anche riproposizione peggiorativa) di un modello tradizionale improponibile, che come abbiamo visto è legato più che alla quasi inconoscibile Maria reale, alla sua perversa idealizzazione nei secoli. Ề la difesa di un modello che si vuole contrapporre ad un femminismo militante, che vuole liberare la donna e puntare alla parità fra i sessi e più oltre al superamento del concetto stesso di sesso in favore di quello (assolutamente laico) di “genere”; un modello che i cattolici incolpano di minare, anche banalizzandola, l’identità femminile e di compromettere il dialogo fra i due sessi, voluto da Dio nei modi esatti in cui ce lo presenta la Bibbia. Il mondo laico viene in particolare accusato di rompere indebitamente il legame fra sessualità e procreazione.
Secondo il cardinale Ratzinger, il cristianesimo non è una speculazione filosofica e non è una costruzione della nostra mente. Il cristianesimo “è la Rivelazione di Dio”,un messaggio che ci è stato consegnato e che non abbiamo il diritto di ricostruire a piacimento. Su queste basi è ben lecito aspettarsi una inarrestabile fuga delle donne da questa chiesa.

[1] Corriere della sera, 20 febbraio 2005
[2] Lettera apostolica  “Rosarium Virginis Mariae”

Francesco D’Alpa

Pubblicato su: "L'Ateo" n. 38 (3/2005)