Naturalmente simili, teologicamente diversi
La distinzione fra mondo umano e mondo animale è parte di quella più vasta fra uomo e natura: particolarmente sottolineata nei primi secoli dell’età moderna, non del tutto riconducibile a tradizioni religiose.
Nello specifico comunque della tradizione cattolica, il racconto biblico della creazione, per lo meno nell’interpretazione teologica ordinaria, non è solo la spiegazione dell’origine e del perchè dell’uomo, ma anche una decisa precisazione concettuale della sua separazione ontologica dalla natura, con quest’ultima relegata a semplice scenario: regno della provvidenza, laddove quello umano è il regno del libero arbitrio concesso dal creatore alla sua creatura prediletta, a motivo della sua ‘immagine e somiglianza’ con lui. Mentre la vita è proprietà dell’uomo quanto dell’animale, solo al primo competerebbe quella particolare dignità che lo rende custode e manutentore (come ‘causa seconda’) della terra in cui vive.
Ma Dio ha creato il mondo per affidarlo all’uomo oppure ha creato l’uomo (la più perfetta o, se vogliamo, la meno imperfetta delle creature) per fargliene servire liberamente?
Per lungo tempo la cultura cristiana non si è minimamente preoccupata di ciò. Quando ha poi esaminato direttamente la questione, le sue posizioni sono risultate contraddittorie: taluni, infatti, ed in certi periodi, hanno sostenuto il diritto a modificare e ad usare qualsivoglia aspetto o elemento della natura, per altri ed in altri contesti ha prevalso un certo rispetto.
Per quanto riguarda direttamente gli animali, per lo più in Occidente, laddove non siano stati considerati dei meri oggetti, l’affetto riservato loro non è risultato (per lunghi periodi) molto diverso da quello verso il bambino, considerato nel suo status di irrazionale ed innocente.
Aristotele aveva già annotato la sconcertante somiglianza fra le scimmie e l’uomo, ma solo durante l’era di massima espansione coloniale, sulla spinta dei resoconti derivanti dall’esplorazione in particolare dell’oriente, diviene pressante il problema di una precisa delimitazione teologica fra l’animale e l’uomo. Nel caso particolare, ad esempio, delle scimmie antropomorfe ci si chiede: si tratta di esseri intermedi, di uomini degenerati, o di che altro?
Lo sconcerto per le somiglianze con l’animale viene superato dalla cultura del tempo con la rivendicazione di una distanza metafisica (l’odierno ‘salto ontologico’), la sola che può segnare una incolmabile distanza fra i due mondi, visto che nessuna differenza anatomica appare capace di per sè di separare l’umano dall’animale. Secondo i più eminenti teologi, nulla di materiale impedisce infatti alla scimmia di parlare, di inventare, quanto la mancanza di quell’anima razionale che esplica la propria azione sul corpo ma in modo proprio ed indipendente dalla materia.
La scienza segue invece vie non preconcette; così Linneo, che ammette la difficoltà di trovare caratteri veramente discriminanti fra l’uomo e l’animale, sostiene che la più petulante delle scimmie differisce poco dall’uomo più saggio; ed ha l’ardire di includere nella sua tassonomia animale anche la specie umana, pur non cogliendo quella derivazione che sarà poi dimostrata da Darwin.
Per gli enciclopedisti, ed in genere per la scienza materialista del Settecento, fra uomini ed animali esiste invece solo una diversa espressione di certe caratteristiche, testimoniata dalla somiglianza delle rispettive anatomie. La stessa progressione nel raziocinio è parallela alla progressione anatomica: nell’intelligenza umana è riconoscibile il perfezionamento e l’acme di quella animale; nella natura vi è una unità profonda, e non esiste un lato trascendente dell’essere umano.
Lo scrupolo metafisico comunque sopravvive. Secondo Buffon, si deve concludere che Dio ha creato il corpo dell’uomo simile a quello dell’animale, seguendo un modello generale, ma gli ha riservato l’anima. Dunque il corpo dell’uomo è macchina al pari di quello dell’animale; ma mentre la macchina animale è ‘automatica’ ovvero mossa dall’istinto, quella umana è soggetta al dualismo anima-corpo.
Se vogliamo, il ragionamento non regge neanche sui dati scritturali, perchè in Genesi dio dà semplicemente vita (=vitalità) al corpo di Adamo, nè più nè meno come l’aveva data agli altri animali. Dunque Genesi sembra addirittura più vicino alla verità scientifica odierna che non la teologia cristiana.
Nel primo ecologismo, ottocentesco, il rapporto uomo-natura diviene ambiguo. La natura è considerata ora come inclusiva dell'uomo, ora come esterna a lui, “provincia separata e selvaggia, mondo a cui l’uomo si è adattato, sotto le cui leggi è nato e morto”.[1]
Durante il Novecento la biologia procede decisa alla definitiva unificazione del mondo dei viventi, incluse tutte le nuove forme scoperte, e fino all’ultramicrospopico.
Per i religiosi, invece, il tabù è tale che fra uomo ed animale non vengono elencate differenze soltanto quantitative, ma soprattutto ed essenzialmente ‘qualitative’: l’animale non è meno intelligente rispetto all’uomo, nè meno sofferente, ed in ultima analisi meno destinatario di diritti; l’animale, assai più semplicemente, non è intelligente, non soffre, non ha alcun diritto. Si può discutere, come nel dibattito sul cartesianesimo, se e quanto sia un automa, ma guai a confrontare le sue attività (apparentemente ‘mentali’) con quelle dell’uomo.
Ma questa riduzione dell’animale ad automa si dimostra una posizione poco difendibile: come negargli infatti, ad esempio, la sensibilità, di cui sembra evidentemente dotato, visto che reagisce in modo appropriato e vario agli stimoli?
Per il mondo cattolico si tratta di una mera apparenza: l’animale non soffre come soffriamo noi (anche se dà questa falsa impressione), ma è semplicemente mosso da una reflettività incosciente. Non ha dunque senso chiedersi se qualunque animale, anche il più simile a noi, possa o no essere usato a fini scientifici, anche mediante la vivisezione.
Tale è la cecità del pensiero religioso fino a Novecento inoltrato, che non sorprende dunque leggere un ampio repertorio di definizioni simili a questa: «L’animale non è persona e l’affermazione che l’uomo abbia doveri verso di esso, non è compatibile con la dottrina cattolica. La vivisezione è lecita qualunque sia la condizione sperimentale, anche quando non serva all’utilità pratica mediata od immediata, ma solo al progresso della conoscenza scientifica. È illecito provocare o tollerare negli animali sofferenze senza scopo, perchè ciò ripugna alla retta ragione; l’animale non ha diritti, però la condotta dell’uomo verso di esso non è priva di importanza etica» [2].
Sappiano bene come la ragione umana sia stata sempre capace di trovare ed abbia poi ostentato una ragione giustificativa per qualunque misfatto concepito, al di là dell’etica.
Riferimenti:
[1] Mc Kibben B., The End of Nature. Random House, New York, 1989. Trad. it.: La fine della natura. Bompiani, Milano 1989, p. 62.
[2] Scremin L., Appunti di morale professionale per i medici. Editrice Studium, Roma, 1934, p. 123.