Aridità sacra, aridità profana

Leopardi adolescente presenta molti segni di quella che oggi definiremmo una ‘costellazione premorbosa’: ad una certa debolezza organica si associano ossessività, perfezionismo, spiccato senso di autocritica con tendenza alla autosvalutazione, un rapporto conflittuale con gli altri e con il mondo che lo spinge a ritrarsi in sé. A ventuno anni sopravviene quel genere di crisi psico-fisica che i medici hanno denominato a lungo neurastenia (o psicoastenia): un senso di spossatezza e di inadeguatezza esistenziale; il prevalere di una arida cerebralità; una cattiva gestione della sfera emozionale ed affettiva e della corporeità. In pratica, una crisi depressiva in cui egli sperimenta, intellettualizzandolo al massimo, “il niente che mi circonda”. Questo stato diviene una tonalità di fondo del suo animo e si accentua nei ‘sedici mesi di notte orribile’ di un decennio dopo. Gran parte della sua vita è dunque dominata dal tedium, dallo spegnersi delle speranze e delle illusioni. E di questa penosa condizione ci ha raccontato lucidamente quasi tutto: interpretandola a modo suo e ritendendo di potere rispondere alla domanda fondamentale sul senso dell’esistenza.
I più noti mistici, come Teresa d’Avila, hanno sperimentato anch’essi una analoga condizione di inceppamento dello spirito, e l’hanno interpretata coerentemente con il loro retroterra culturale, con la cornice religiosa entro la quale erano racchiuse le loro esistenze. Giacomo e Teresa, hanno vissuti abbastanza simili; per entrambi vi è un fitto intreccio fra storia personale e sviluppo del pensiero; ma l’interpretazione della propria vicenda esistenziale e della vita in genere è radicalmente diversa. Vediamone dunque alcune analogie e peculiarità.

Sia Giacomo che Teresa hanno una evidente difficoltà a relazionarsi con il ‘quotidiano’: l’uno chiuso nel suo intellettualismo, l’altra votata (anche come donna) al sentimento ed al soprannaturale; ma fra loro e l’ideale agognato c’è una barriera, simbolicamente rappresentata per l’uno dalla “siepe”, per l’altra dal corpo. La ‘noia’, il vuoto interiore, l’inerzia colgono Giacomo nel periodo in cui si sviluppa il suo anticlericalismo; ed invece investono Teresa nel fervore della sua vita religiosa. Giacomo, che sente il fascino del mondo, ne subisce la separazione della quale cerca una ragione; tenta una difficile riconciliazione (almeno nelle evocazioni e nei ricordi) fra affetti e ragione. Teresa, che invece anela al distacco dal mondo, coglie dell’aridità il fatto per lei ‘positivo’ dell’annullamento di ogni sentimento mondano, che accelera la fuga in avanti verso l’esperienza del distacco totale dalla materialità, ovvero l’estasi. Per entrambi comunque il dolore è insito nella condizione umana.
Per Giacomo la ragione è uno dei più nobili tratti dell’uomo e lo porta a conoscere cose a lui superiori. Pur cosciente del fatto che essa agisce negativamente sull’individuo, privandolo delle illusioni, egli pretende nonostante ciò di servirsene stoicamente, a costo di una infelicità che non ha altra ragione se non la limitatezza stessa dell’uomo di fronte all’ostilità ed all’indifferenza della natura. Così il tempo in cui egli vive gli sembra pavido ed ipocrita, a ragione del suo volgersi allo spiritualismo ed alle illusioni, che certo aiutano a vivere ma di cui non ci si dovrebbe nutrire.

Sia Giacomo, che ancora più chiaramente Teresa, vengono condotti da una instancabile autoanalisi ad una generalizzazione della propria esperienza intima, cui attribuiscono un valore universale. Per Giacomo, che non è in partenza spirito religioso (nonostante il fardello di bigotteria familiare che già di per sé lo orienta ad una visione pessimistica del mondo) l’infelicità della condizione umana è un dato generale, anche al di là dei malesseri del corpo; non vi è mai stata una età felice dell’uomo, che piuttosto ha progredito nei secoli, rendendo meno gravosa la sua esistenza; l’uomo è vittima non colpevole della ‘natura matrigna’, contro cui non può nulla se non patirne con rassegnazione le ingiustizie, opponendole la dignità della propria consapevolezza. Teresa invece sente, per istruzione e per intimo convincimento, il peso della colpa che da Adamo in poi graverebbe su tutti gli uomini, responsabili della propria caduta dallo stato di felicità iniziale; dunque partecipa volontariamente all’espiazione della pena, come ossequio di creatura a quel dio che sente vero e agente.
Per Giacomo, che è realista e materialista, mente, pensiero e materia sono un tuttuno, e l’incompiutezza umana non ha altra ragion d’essere se non l’incompiutezza stessa degli oggetti naturali. Per Teresa, fuori di noi e dentro di noi agiscono forze che contrastano la nostra volontà; ed esiste oggettivamente il ‘male’, che è cosa ben diversa della semplice imperfezione.
Per Teresa non si tratta, è bene rimarcarlo, di una antropologia personale; la cultura del suo tempo, ed in modo specifico la cultura religiosa sono permeate di queste idee.
Nella sua ricerca di chiarezza razionale, Giacomo scruta freddamente la realtà, pur sperimentando il fascino dell’indefinito che lo volge al tempo passato come ad un riferimento indeterminato, dal quale l’anima si nutre di sensazioni ‘indefinite’, più appaganti del nuovo e del definito. Da qui origina la sua cosciente predilezione per parole che destano anch’esse idee vaste ed indefinite e che hanno un suono poetico (‘lontano’, ‘antico’, ‘notte’, ‘oscurità’…).
Ma anche secondo i mistici, non esistono parole che possano descrivere compiutamente questi stati d’animo, cosicché le loro descrizioni appaiono egualmente vaghe, e solo apparentemente profonde. E dunque Teresa, immergendosi deliberatamente nell’indefinito e nell’oscuro, ritiene di interpretare correttamente i suoi stati d’animo, e dà al suo pensiero una sistematicità che non è invece nei propositi di Leopardi.

Giacomo e Teresa hanno in comune la schiettezza dell’autoanalisi, ma probabilmente non il compiacimento che ne deriva. Entrambi cercano di superare il ‘tedium’ e di trovare un appagamento che la ragione non può dare a Leopardi, laddove la fede lo può invece fornire a Teresa.
In tal senso, per Giacomo, si è parlato di  ‘vita strozzata’, non avendo egli superato quello che Hegel ha definito “il negativo del mondo sussistente”. Il suo ‘pessimismo cosmico’ capovolge il rapporto natura-uomo: non è l’uomo ad essersi allontanato dalla natura, causando la propria infelicità, ma è la natura a originare l’infelicità umana.
Per Leopardi non esistono scappatoie religiose. Egli lamenta la scarsa considerazione dei suoi contemporanei per l’educazione e la cura del corpo; e protesta contro l’enfasi data all’elemento spirituale, proponendo piuttosto un’etica antiascetica ed anticristiana.
Dunque Leopardi rifiuta apertamente di superare la sua condizione esistenziale ricorrendo a Dio, al mistero ed alla trascendenza e sceglie un cammino assolutamente ateista e materialista. Il suo pessimismo non esita in una conversione religiosa, verso cui la sua storia familiare lo indirizzava; non fugge la realtà rifugiandosi in un immaginario regno dello spirito; non spera in compensazioni ultraterrene. Legato alla ragione settecentesca, razionalistica e materialistica, è insofferente degli ‘errori barbari’ del cristianesimo, e deride quanti, arretrando rispetto alla civiltà, cercano un compromesso fra progressismo e cattolicesimo, accettando il mito ed il dogma, facendo convivere le superstizioni medievali con un progressismo superficiale, falso e comunque non appagante.
Teresa invece vive la sua sofferta condizione come una colpa; si sente “così perversa” da ritenere i suoi peccati responsabili di “tutti i mali e le eresie da cui era invaso il mondo”: la sua inquietudine non può avere altra soluzione se non un approfondimento dei temi della fede.
Nonostante le premesse, comunque, anche Teresa trascorre nell’aridità ben diciotto anni: senza "percepire" più nell’anima il suo dio. Ed in questo periodo, nulla sembra darle sollievo: nel suo sentire immediato infatti "dio non c'è", come non c’è mai nella ragione di Giacomo.

La “notte oscura” e l’aridità che la connota, sono accadimenti esistenziali che segnano talora intere vite, altre volte ne costituiscono solo una fase. A monte dell’aridità, si trova quasi sempre uno stadio di ossessività facilitato da motivi biografici (come lo studio ‘matto’ di Giacono o l’eccezionale fervore religioso di Teresa). Nel saggio “Dall’angoscia all’estasi”,  Pierre Janet ha descritto il cosiddetto ‘état de sechesse’, segnalandone come esito (nelle psicosi isteriche e dunque particolarmente nelle donne) il delirio mistico e quindi l’estasi, che ciclicamente precede il ritorno ad una fase di equilibrio.
Non è strano che il vissuto e l’ambito culturale estremizzino delle predisposizioni naturali. Ma cosa pensa di se stesso un religioso che ad un certo momento della sua vita avverte un abbassamento del tono emotivo e nutre disinteresse per tutto quanto prima riempiva la sua vita e le dava senso? Non può che autoaccusarsi delle proprie manchevolezze, secondo le scontate categorie del pensiero religioso: così ad esempio, seguendo s. Bernardo, parlerà di ‘languidezza e ottusità della mente’, di durezza del cuore divenuto incapace di commuoversi, di mancanza di gusto nel pregare (senza che per questo venga meno l’impegno nelle attività ordinarie). Correttamente, la teologia mistica ritiene che questi stati dipendano dall’ambito affettivo; ma ai nostri occhi erra quando predica che vadano accettati come delle prove nel cammino di perfezione.
La cultura religiosa conferisce all’esperienza dell’aridità un carattere peculiare: il vuoto interiore, la liberazione dalla schiavitù dei sentimenti, della memoria e della volontà (la “massima passività”; il “vivere morendo”) vengono vissuti come progresso spirituale; il crescente disprezzo di se stessi aumenta la convinzione di seguire un percorso virtuoso. Ma ciò che cerca il mistico sembra proprio quello che subisce chi cade nella depressione e nella malinconia: ottundimento e distacco dai sensi, separazione dal mondo, sofferenza, sensi di colpa, autoaccuse. Alcuni caratteri dell’aridità dei mistici sono fin troppo simili a quelli presenti nei disturbi dell’umore: il senso di vanità di ogni cosa, il grigiore affettivo, lo scoraggiamento, l’incapacità a meditare (ovvero il rallentamento ideativo), le tentazioni (ovvero i pensieri disturbanti e parassiti). Giovanni della Croce giustamente nota che “questo cambiamento di solito si verifica nelle persone ritirate dal mondo, più che in altre, e poco dopo il loro ingresso nella vita spirituale, perché sono più libere dalle occasioni di tornare indietro e più disponibili anche a riformare alla svelta le inclinazioni per i beni di questo mondo. Ciò è quanto si richiede per cominciare a entrare in questa beata notte dei sensi”.
Lo “santa indifferenza” cui tendono i mistici è troppo simile all’indifferenza isterica per non essere tentati di avvicinarle. Non a caso, proprio Giovanni della Croce aveva descritto come “quest’aridità molte volte può derivare non dalla notte o purificazione dei sensi, bensì dai peccati, imperfezioni, debolezze, tiepidezze, oppure da qualche cattivo umore o indisposizione fisica.”
Ma quando si è scelta la vita religiosa e si presentano i primi segni di questa aridità, diviene impossibile liberarsi dallo schematismo in cui si è stati educati, e riconsiderare le cose secondo una diversa visuale. Nel linguaggio psichiatrico attuale si parla di ‘anedonia’, di ‘difficoltà di infuturazione’, e si ritiene che le si debba vincere, ricorrendo ad un aiuto esterno (anche farmacologico) giacchè non è in se stessi che si può solitamente trovare una valida via d’uscita: proprio il contrario di ciò che suggerisce la mistica.

Sarebbe comunque fuorviante leggere le vite e la produzione letteraria di Giacomo e di Teresa sotto un’ottica psichiatrica. L’esperienza della deformità e della malattia diventa in Leopardi uno strumento conoscitivo fondamentale; il suo illuminismo è una presa di coscienza dolorosa di una ‘verità’ generale (non solo personale) sull’uomo e sulla natura. Non porta, e non può portare alla felicità; ma contro ciò egli si ribella in modo deciso, in nome di una umanità che reclama la sua dignità. Tutto il contrario di Teresa che si umilia e sottomette ad una volontà superiore che ritiene giusta.
Su tali premesse, mentre il pensiero religioso (cui Teresa ovviamente aderisce pienamente e con convinzione) giustifica il mondo così com’è, Leopardi invece gli si ribella. Il suo è dunque un pessimismo lucido e combattivo, quanto quello di Teresa è una sorta di ottimismo arrendevole.
Ma, ancora una volta, le due posizioni convergono in qualcosa. Per Leopardi, se la natura è fonte di illusioni, la felicità dell’uomo sta nell’abbandonarsi a queste illusioni, mentre la ragione, che rende chiara la verità, porta all’infelicità; la poesia invece, che non ha rapporto con la filosofia e con la scienza, crea un mondo di illusioni che appaga l’immaginazione ed il sentimento, dando sollievo dalla noia della vita. E questo lo percepivano anche i mistici: niente di strano che molti fossero anche poeti; e che la preghiera sia spesso una forma di poesia.

Francesco D’Alpa

Pubblicato su: "L'Ateo" n. 58 (4/2008)