Un secolo fa: la mozione Bissolati

In tempi di controversie sull’insegnamento della religione cattolica nella scuole pubbliche, è utile ricordare l’importante ed articolato dibattito che ebbe luogo fra il 18 ed il 25 febbraio 1908 nel parlamento del Regno d’Italia sulla ‘mozione Bissolati’: “La Camera invita il Governo ad assicurare il carattere laico della scuola elementare, vietando che in essa venga impartito, sotto qualsiasi forma, l’insegnamento religioso”.
Tratteggiamone le premesse. La legge n. 3725 del 13 novembre 1859, promulgata da Gabrio Casati, ministro della Pubblica Istruzione dello Stato sabaudo, aveva introdotto, tra le discipline oggetto di istruzione pubblica, anche la religione cattolica. Non si era ancora nel clima di rottura con il papato che sarebbe seguito alla presa di Roma, e l’insegnamento della morale cristiana era un pilastro dell’educazione. Nei primi due anni di scuola elementare, i solo obbligatori, venivano dunque previste quattro materie: religione, lettura e scrittura, lingua italiana, aritmetica elementare e nozioni del sistema metrico. Gli alunni potevano essere esentati dall’insegnamento religioso, ma solo a patto che vi provvedessero le loro famiglie e che alla fine dell’anno fossero valutati dal maestro della scuola pubblica e dal parroco. In pratica, in un modo o nell’altro, lo stato pretendeva che tutti gli alunni crescessero istruiti sulla religione di stato, scongiurando il rischio di irreligiosità. Nelle scuole secondarie, ad indirizzo classico o tecnico, il compito era invece affidato ad un “direttore spirituale”. Il regio decreto n. 4151 del 24 giugno 1860, (“Regolamento per le scuole normali e magistrali degli aspiranti maestri e delle aspiranti maestre”) confermava l’obbligatorietà dell’insegnamento religioso nei programmi delle scuole deputate a formare i futuri maestri. Nelle Università veniva inoltre vietato l’insegnamento di ciò che fosse contrario ai principi religiosi. Secondo il regio decreto 9 novembre 1861, n. 315 (“Regolamento per le scuole normali e magistrali e per gli esami di patente dei maestri e delle maestre delle scuole primarie”), come prima materia di insegnamento veniva indicato “religione e morale” mentre “catechismo e storia sacra” era la prima materia obbligatoria per gli esami, sia scritti che orali.
L'insegnamento della religione, nei programmi Casati, non seguiva comunque le direttive propriamente catechistiche; si preoccupava soprattutto di inculcare nei fanciulli, sotto gli argomenti della religione, il senso dell’obbedienza civile “verso le Podestà costituite, non già per timore de' castighi, ma per ossequio a quei principi di pubblico interesse, che esse rappresentano e tutelano". L’obbedienza al Dio del cattolicesimo diveniva sostanzialmente una metafora della condotta del buon cittadino, e come tale veniva adoperata per condizionare le masse.
Con l’affermarsi dello spirito anticlericale e laicista, soprattutto dopo la presa di Roma, l’indirizzo governativo diveniva quello di estromettere l’insegnamento religioso dalla scuola pubblica. La spinta veniva soprattutto da alcune amministrazioni provinciali e comunali della Romagna. Una circolare del 29 settembre 1870, del ministro della Pubblica Istruzione Cesare Correnti, stabiliva che l'istruzione religiosa scolastica venisse impartita solo su richiesta dei genitori. Il 26 gennaio 1873 veniva nel frattempo decretata la soppressione delle Facoltà teologiche di Stato. La legge 23 giugno 1877, n. 3918 (esecutiva dal primo gennaio 1878), che stabiliva il nuovo ordinamento dei licei, dei ginnasi e delle scuole tecniche, aboliva la figura del “direttore spirituale” nei licei-ginnasi e nelle scuole tecniche. La legge 3961 del 15 luglio 1977 (“Legge sull'obbligo dell'istruzione elementare”) del ministro Michele Coppino confermava il carattere facoltativo dell’insegnamento religioso scolastico, e introduceva nel corso elementare inferiore, come materia obbligatoria al posto della religione, le “prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino”. Nel 1880 l'istruzione religiosa veniva eliminata anche dai programmi delle scuole normali.
Il regio decreto 16 febbraio 1888, n. 5292 (“Regolamento unico per l'istruzione elementare”), rendeva facoltativo l’insegnamento delle “prime nozioni dei doveri dell’uomo  e del cittadino” a tutto il corso d’istruzione elementare. Questa legge prendeva atto delle conclusioni di una commissione, presieduta nel 1888 da Pasquale Villari ed incaricata dal Ministro Boselli di redigere i nuovi programmi per la scuola elementare, ed il cui segretario, il liberale Gabelli, aveva scritto che “lo Stato non può fare, né direttamente né indirettamente una professione di fede, che manchevole per alcuni, sarebbe soverchia per altri”.
Due successivi regolamenti generali per l'istruzione elementare del 1895 (decreto 9 ottobre 1895, n. 623 e regio decreto 6 febbraio 1908, n. 150) confermavano il carattere facoltativo dell’insegnamento religioso che doveva essere tuttavia impartito  “a cura dei padri di famiglia che lo hanno richiesto”, quando la maggioranza dei consiglieri comunali non decidesse di ordinarlo a carico del Comune.
Nel complesso, l’ordinamento scolastico si manteneva dunque laicista, ed in questo senso il divieto di insegnare nelle Università “cose contrarie ai principi religiosi” veniva di fatto tacitamente abolito. Ma l’atteggiamento dello Stato nei confronti della religione rimaneva comunque piuttosto benevolo: il sentimento religioso continuava ad essere considerato un cardine della società, in quanto strumento elettivo di trasmissione dei valori della famiglia tradizionale e dunque della socialità stessa. Ma la resistenza della componente cattolica all’interno delle amministrazioni comunali andava comunque crescendo. I consigli scolastici continuavano di fatto a proporre l’insegnamento della religione, giacché tale sarebbe stata la richiesta di circa il 90-95% delle famiglie, e premevano per il ripristino della sua obbligatorietà. Di fatto, l’insegnamento religioso continuava ad essere tutt’altro che “eccezione alla regola”, come previsto dalla legge Casati.
Al sorgere del Novecento il dibattito fra laici e cattolici si era ormai radicalizzato. Nel 1907 Gaetano Salvemini chiedeva con forza che la religione venisse estromessa dall’insegnamento scolastico, anche facoltativo, perché la scuola laica “deve educare gli alunni alla massima possibile indipendenza da ogni preconcetto non dimostrato. Essa deve sostituire negli alunni all'animo dogmatico, che sembra quasi connaturato con il pensiero infantile e giovanile, e che rafforzato e rivolto in un determinato senso nelle scuole confessionali è stato sempre fonte perniciosissima di intolleranza e di odii civili; a quell'abito dogmatico, dicevo, la scuola deve sostituire l'abito critico, e alla intolleranza settaria il rispetto di tutte le opinioni sinceramente professate. La scuola laica non deve imporre agli alunni credenze religiose o politiche in nome di autorità sottratte al sindacato della ragione. Ma deve mettere gli alunni in condizione di potere con piena libertà e consapevolezza formarsi da sé le proprie convinzioni politiche, filosofiche e religiose. E' laica insomma la scuola in cui nulla si insegna che non sia frutto di ricerca critica e razionale, in cui tutti gli studi sono condotti con metodo critico e razionale, in cui tutti gli insegnamenti sono rivolti ad educare e rafforzare negli alunni le attitudini critiche e razionali”. La Chiesa era particolarmente attiva nella lotta ideologica e disciplinare contro il modernismo teologico, che stava scardinando dogmi ed autorità clericale.

Il 14 gennaio 1908 il Consiglio Comunale di Roma faceva voti “perché Governo e Parlamento, in coerenza alle leggi vigenti, dichiarino esplicitamente estranee alla scuola primaria qualsiasi forma d’insegnamento confessionale”. Ed a questo punto del dibattito si inserisce il dibattito parlamentare sulla mozione Bissolati.
Sono passati appena quattro anni dalla parziale abrogazione del ‘non expedit’ e si annunciano manovre per le elezioni del 1909 attraverso il confronto su un tema, cioé la laicità dello Stato, che va ben oltre il tema specifico dell'insegnamento religioso nelle scuole. Bissolati è erede della sinistra risorgimentale, e combatte affinchè il conservatorismo delle forze cattoliche non ponga una pesante ipoteca sullo stato liberale. Ciò all’interno di un tentativo più ampio, e spesso intransigente, di laicizzazione integrale dello Stato, parallela all’avanzata del socialismo nel mondo contadino. Formalmente Bissolati dichiara di essersi interessato della questione perché desideroso di risolvere un contenzioso fra i comuni che avevano deliberato di escludere l’insegnamento religioso dalla scuola elementare ed il Ministero che aveva annullato tali delibere. Ma il suo vero intento è che l’insegnamento della religione venga vietato nelle scuole elementari, anche se pagato dalle famiglie, in coerenza con l’orientamento dell’insegnamento statale in genere.

Come ampiamente previsto dagli stessi proponenti, la mozione viene bocciata, con 347 voti contrari e solo 60 favorevoli. Ma la sconfitta è piuttosto politica che sul piano dei principi. Il dichiarato appoggio dei parlamentari massoni spinge infatti i moderati verso le posizioni governative; e gli stessi massoni si dividono, votando in gran parte ‘secondo coscienza’. Il gran maestro Ettore Ferrari, che appoggiava pienamente Bissolati, aveva infatti decretato l’espulsione di quanti non avessero approvato la mozione, ma il suo Luogotenente, il filo-clericale Saverio Fera, in linea con l’orientamento del governo Giolitti, si era rifiutato di applicare questa sanzione e ciò conduce rapidamente ad una scissione da cui sorge la nuova Massoneria di Piazza del Gesù.

Lo spirito che anima Bissolati e l’interesse che riveste oggi per noi la sua proposta sono felicemente racchiusi nelle prime frasi da lui pronunciate in parlamento: “Il risultato è prevedibile e previsto: la mozione sarà respinta; passerà un ordine del giorno il quale, direttamente o indirettamente, legittimerà quella che è la soluzione proposta dal governo. Ma [..] se noi dovessimo attendere a portar qui la parola nostra e le nostre iniziative quando v’è probabilità di buon successo, e quando il Governo è con noi, dovremmo sempre tener chiusa la bocca. E d’altronde io credo che il miglior frutto, che si posa attendere dall’iniziativa mia, debba essere questo: la discussione che si farà sull’argomento”. Discussione di stringente attualità
Bissolati contesta innanzitutto la presunta aconfessionalità delle leggi e dei regolamenti sull’istruzione elementare, che pur escludendo l’obbligatorietà dell’insegnamento religioso scolastico, impongono al fanciullo lo studio della religione in sede extrascolastica: “Lo stato democratico può esso favorire, in qualsiasi modo, direttamente o indirettamente, l’insegnamento d’una  qualsiasi confessione? […] si può consentire che la maggioranza abia il diritto di adoperare lo Stato, i poteri pubblici, per propagare, insegnare una convinzione, che urti nelle convinzioni intelettuali, nella fede morale, sia pure, di una minoranza?”. Per lui lo Stato deve essere veramente democratico, deve difendere i diritti delle minoranze, non può sottrarsi al compito di preservare le giovani generazioni nel loro diritto di “affermarsi come esse credono nel campo intellettivo, nel campo morale, nel campo politico e sociale. Lo scopo dello Stato moderno deve dirigersi a questo, di non preoccupare il presente, in vista dell’avvenire, Le nuove generazioni hanno il diritto che la loro mente, quando diverranno adulte, sia nelle migliori disposizioni per accogliere qualunque propaganda che essi credono”. Il metodo d’insegnamento migliore è quello che parte dal sensibile, che va dalle cose note alle ignote, che rifugge dalle astrazioni della religione; che non si basa su dogmi. La religione va relegata all’insegnamento superiore, ma come storia comparata delle religioni, come sostengono i modernisti, recentemente condannati. Né si possono fare troppe concessioni al senso religioso, perché essendo in Italia presente quasi solo la religione cattolica, inevitabilmente il senso religioso si sposa con il culto cattolico.
Secondo Bissolati, l’insegnamento del Catechismo nelle scuole è doppiamente deleterio: o perché forma dei credenti privi di qualunque spirito critico, o perché, al contrario, provocherà in seguito un moto di ripulsa tale da creare odio per qualunque idealità o problema filosofico. Ma il punto più delicato della questione è il quesito: la religione è utile ed opportuna per i suoi effetti morali? Così sarebbe per molti insegnamenti del Vangelo, ma insieme a questi il bambino viene guastato, col Catechismo, “da quello spirito che dentro lo stesso catechismo circola, spirito di compressione della personalità e soprattutto di intolleranza che al bambino si impone e per cui si induce il fanciullo a considerare fuori del mondo della gente rispettabile quelli che non sono cattolici”. Secondo molti uomini, di fede più o meno salda, ritiene Bissolati, la gente comune ha comunque bisogno di Dio, per regolare la sua condotta, più di quanto abbia bisogno di un carabiniere. E ciò spiega ad esempio perchè l’azione socialista, che rivendica migliori salari e condizioni di lavoro più umane, trovi ostacoli quasi insormontabili nella predicazione clericale circa la ‘giusta diseguaglianza’ sociale predisposta dalla divinità; ma, come egli confida con spirito progressista, alla fine “non valgono le illusioni religiose a trattenere, a fermare, a ritardare i procedimenti naturali delle cose”.
Anche all’interno delle leggi vigenti ci sono comunque, secondo Bissolati, delle chiare contraddizioni, in quanto dichiarare facoltativo dell’insegnamento religioso scolastico, di fatto è come ammettere che un fanciullo non necessiti di tale insegnamento per divenire un buon cittadino.
Comandini preciserà poi meglio che lo Stato può dare un insegnamento confessionale solo se ha una fede ed una confessione; ma ciò non deve accadere in uno stato laico, il cui intervento in questo ambito è solo amministrativo. Lo stato deve dare un insegnamento moderno, rispondente alle sue funzioni didattiche e pedagogiche, senza preoccuparsi se vada a favore o contro il dogma.
Più in là si spinge Berenini: “credere non vuol dire avere diritto di far credere”, neanche il padre infatti può rivendicare il diritto di “costringere, comunque, l’anima” del figlio; a maggiore ragione ciò deve valere per lo Stato.

Ma quali furono i temi dell’opposizione alla lucida e moderna impostazione di Bissolati? Per Salandra, “noi non siano un popolo fervente di religiosità; ma a noi ripugna del pari la negazione recisa del divino, la negazione del sentimento religioso”; ed il sentimento cristiano è il “fondamento delle istituzioni e degli ordinamenti sociali d’Italia”. Per Cameroni, il principio della scuola laica “poggia sopra una visione monca ed unilaterale dello spirito e della società umana […] il quale lede i diritti primordiali delle famiglie italiane nella educazione della prole, il quale finalmente vilipende la sovranità popolare a beneficio di minoranze prepotenti  e faziose”. Solo chi si rivolge all’inconoscible, alla finalità delle cose, è un uomo “completo”, “integro”; la religione è un “presidio di moralità”. La laicità sarebbe invece “un atteggiamento indifferente e passivo dello spirito umano, della società civile, delle leggi”, mentre la fede “non si racchiude in una forma di astrazione e di contemplazione, in una specie di nirvana individuale: essa attraverso a tutta la storia si è esplicata e si esplica anche oggi pervadendo tutta la civiltà  tutta la vita esteriore sensibile nostra”. Potrebbe dunque la scuola disinteressarsi di tutto questo? “Dovrà il maestro turarsi le orecchie e non rispondere alle domande del fanciullo, lasciando che così egli cresca nel fior degli anni siccome un pallido Amleto col primo germe del dubbio sugli enigmi della vita?”.
Sul fronte opposto, per Turati, il sentimento religioso è la “bandiera sotto cui si tenta di far passare questa merce di contrabbando” e non ha nulla a che vedere con il “catechismo, questo residuo di paleontologia psicologica, che, con spiegazioni puerili, vorrebbe dissimulare il mistero delle cose”.

Il rapporto fra crescita morale e istruzione religiosa è uno dei punti chiave della discussione. Secondo i fautori della mozione la morale non va confusa né immedesimata con la religione; al massimo le può stare accanto. Secondo i contrari, come Salandra, quanti passano da una qualsiasi credenza all’agnostismo “cadono nella miscredenza grossolana e volgare, i cui funesti effetti morali e sociali è inutile descrivere”. Per Queirolo, una società atea non è desiderabile, perché votata al fallimento, in quanto formata da uomini non interessati alla vita, e che sopravvivono solo perchè sorretti da affetti che sono in contrasto con le dottrine atee. Per Giuseppe Majorana, il sentimento religioso è inscindibile dalla maggior parte degli atti rilevanti della nostra vita, in tribunale come nelle nozze, o al momento della morte; la religione è inoltre del massimo aiuto nei rapporti con lo Stato, come regola morale nella vita, come conforto nel sacrificio della vita per la patria; i veri atei sono tali solo in una fase transitoria della vita, dopo di che tornano nell’alveo della religiosità. Secondo Mauri “la morale laica […] ha fatto bancarotta nelle masse”.
Ma secondo Nitti, gli uomini religiosi ed i miscredenti sono equamente presenti fra quanti hanno o non hanno frequentato la scuola; religione e morale sono due cose assolutamente diverse: “l’onestà è un fatto estraneo alla religione. I briganti sono stati fra le popolazioni più religiose; l’inquisizione ha inferocito in nome della fede”; a dispetto della caduta della pratica religiosa “la nostra società è migliore, più colta, più tollerante di quelle che l’han preceduta”. Per Mirabelli “la morale e la religione si sono incontrate per via, e la speculazione teologica o filosofica le ha congiunte; ma ciò non significa che una sia inscindibile dall’altra”. Berenini aggiunge che la morale non si insegna e muta con i tempi; che l’educazione catechistica “non è stata mai fruttuosa”; che la vera anima cristiana “si è formata nelle famiglie”; che il prete “deforma necessariamente il sentimento religioso”. E Leonardo Bianchi, constatato che “la religione cattolica può essere un fondamento di morale, purtroppo, in tutti quegli strati, direi così, popolari, i quali non sono ancora evoluti”, si augura che “la coscienza popolare assurga a coscienza morale, con la istruzione e con l’esempio”, in quanto “la morale che non si sostanzia nello spirito umano, ma si sovrappone ad esso, e vi è mantenuta dalla paura o dalla lusinga, è un sentimento morale che non resiste alle mutevoli e lusinghiere circostanze o ai frangenti della vita […] Tutte le manifestazioni della vita dei popoli dimostrano l’evoluzione progressiva del sentimento morale che progredisce con la civiltà, indipendentemente dalla religione”.

Anche dal punto di vista dei meccanismi di apprendimento, l’insegnamento religioso contrasterebbe con quanto necessita ai fanciulli, ossia nozioni chiare, applicabili alle osservazioni ed all’esperienza quotidiane, piuttosto che credenze cieche. Ma non solo, come afferma Fradeletto: “Il fanciullo d’oggi non è, a parità d’anni, il fanciullo d’altri tempi. I procedimenti dell’eredità psicologica ne hanno acuito la mentalità, le abitudini della vita moderna ne stimolano la curiosità; e voi non potete, senza offesa ai doveri dell’educazione e senza danno per lui, lasciar che nel secolo XX gli si tenga il linguaggio scolastico del secolo XVI. Ora nel catechismo vi imbattete in errori didattici così grossolani, che un educatore coscienzioso non sa tollerarli”. E Mirabelli pone in campo una questione più generale: “Lo Stato non deve prendere a sua norma le condizioni intellettuali e morali della maggioranza numerica, ch’è sempre nel grado meno avanzato della civiltà; ma raccogliere i principii che si palesano nelle regioni superiori della cultura, e rifonderli nel seno degli strati più bassi della società, per sollevarli su la corrente del progresso”.

L’intervento di Martini è uno dei più decisi ed appassionati. Per lui è arbitrario cogliere nel mancato insegnamento religioso scolastico le radici dell’incredulità e dell’immoralità; giacchè proprio nelle scuole religiose furono educati i più ardenti anticlericali francesi, come Voltaire. Ma una questione di fondo, sottaciuta nel dibattito, ha per lui ben altra portata: “qui c’è una borghesia sgomentata dalle minacce del proletariato che vuole opporre una religione di classe alla lotta di classe”; una borghesia che, guidata dalle gerarchie cattoliche, cerca di impadronirsi delle coscienze dei più piccoli per utilizzarli poi come devoti servitori nei posti di comando della società. Ma questo opporsi, agitando un libro ritenuto sacro, al progredire dell’umanità, in realtà è come “trattenere coi fuscelli la corsa delle locomotive”. Lo stato deve restare assolutamente al di fuori delle cose di religione e, al massimo, impedire che nella scuola si faccia propaganda antireligiosa.
L’importante discorso di Nitti, uno degli ultimi del dibattito, è decisamente più articolato: quando la religione è al servizio di interesse economici, la si impone alle masse “nella speranza che siano più tranquille”, ma la religione ha e deve avere fini più nobili e racchiudere tutte le istanze più elevate dell’uomo. Occorre pertanto distinguere tra “istruzione” ed “educazione” del cittadino: “lo stato deve dare l’istruzione; non può somministrare ideali”, e la Chiesa non dovrebbe preoccuparsi di ciò che si insegna nella scuola pubblica, giacché può insegnare liberamente le sue dottrine nelle chiese e nelle sue scuole.

Fra i passi più felici del dibattito mi piace sottolinearne infine uno di Leonardo Bianchi: “Noi rispettiamo il sentimento religioso per tutto quello che esso ha di nobile e connaturato alla vita, per tutto ciò che non crea dissidi e contrasti con quello che è patrimonio intangibile dello spirito umano che sempre più progredisce, vale a dire tende a divenire più civile e a conseguire un più perfetto adattamento all’ambiente sociale; ma non possiamo consentire che nelle scuole si alimenti lo spirito infantile con l’errore, errore che deve essere corretto più tardi con danno della saldezza e della consistenza intellettiva e morale dello spirito”.

Francesco D’Alpa

Pubblicato su: "L'Ateo" n. 49 (1/2007)