Waleed Al-Husseini, Blasfemo! Le prigioni di Allah, ISBN 978–88–98602–44–5, Nessun Dogma editore, Roma 2018, pagine 212, € 15,00, brossura.

Recensione di Francesco D'Alpa

L’itinerario umano di Waleed Al-Husseini, oggi ventinovenne, ricalca, a decenni o secoli di distanza, quello di molti cattolici convertiti all’ateismo in nome della ragione. Blasfemo! è la testimonianza autobiografica della sua lotta per la libertà di coscienza e di espressione, pesantemente osteggiata, in nome dell’Islam radicale, in una Palestina ben lontana dalla sbandierata democraticità.

Nel suo caso, la libera diretta lettura dei testi sacri (impedita per secoli nel cristianesimo dalle istituzioni cattoliche, le uniche autolegittimatesi ad interpretarle) ha un parallelo nella segreta consultazione su Internet (in lunghe ore di frequentazione dei cybercaffè) di testi critici sull’Islam.

Il giovanissimo Waaled ben presto si convince che «l’Islam non è una religione divina, che il Corano non è un libro sacro e che Maometto non è né un Profeta né un messaggero di Dio»; impara a «considerare i religiosi come persone comuni, fallibili, e il Corano come un libro normale, che può essere messo in discussione e criticato»; preso atto dell’illogicità di troppe “sure” coraniche, una volta intrapresa la via del dubbio sistematico, dai suoi circa 17 anni d‘età in poi, percorre dunque velocemente la strada che lo porta ad una assoluta incredulità religiosa, ad un anti-islamismo radicale, non praticabile se non clandestinamente in un paese nel quale politica e religione non concedono alcuna delle libertà sociali ed espressive per noi ovvie in Occidente.

La sua irruenza critica (mista ad una certa ingenuità, che non gli fa riconoscere in tempo i rischi cui va incontro) lo rende presto un importante punto di riferimento per il modo ateo arabo. Ma nonostante pubblichi blog anonimi (con decine di migliaia di visitatori settimanali), viene individuato dalla polizia; e qui ha inizio un lungo calvario giudiziario (con dieci mesi di carcerazione preventiva), esitato poi fortunatamente in una repentina inattesa messa in libertà provvisoria (certo anche grazie a pressioni internazionali) che gli offre la possibilità di espatriare semi-clandestinamente in Francia, dove può finalmente, e con maggiore vigore, riprendere (stavolta alla luce del sole) la sua attività di blogger anti-islamista (eludendo una sopravvenuta condanna in patria a più di sette anni di carcere).

Nella prima parte di questo volume Waleed ci rende noto il suo percorso di analisi critica del Corano e della cultura islamica, con particolare attenzione alle ricadute in ambito familiare e sociale delle prescrizioni religiose; e fra queste indica come particolarmente gravosa la separazione dei sessi, in base al tipico statuto islamico della donna, considerata essere inferiore e semplice oggetto sessuale, e spesso rappresentata sotto forma di un diavolo.

Segue una minuziosa descrizione dei dieci mesi di carcerazione, in particolare dei suoi interrogatori da parte di accusatori tanto zelanti quanto incerti nelle argomentazioni; ai quali risponde nel modo più logico, come ad esempio all’accusa di blasfemia: «Come posso essere accusato di aver abbandonato l’islam se non vi ho mai aderito volontariamente?».

L’autodifesa di Waleed è inizialmente quasi una reazione di sorpresa e si ispira ad una riflessione che può apparirci ingenua: «Per me quei capi d’accusa erano ridicoli e dimostravano che la religione era così fragile da poter essere minacciata dalle mie semplici riflessioni. Eppure in tutti i miei scritti non avevo mai minacciato l’islam o i musulmani. Avevo solo riprodotto e messo in discussione i loro testi sacri». Ma poi vengono messi in gioco fondamentali interrogativi, di cui in Occidente, e particolarmente in Italia, abbiamo buona conoscenza: «Come si può parlare della Palestina come di uno Stato laico? La laicità implica che l’insegnamento religioso nelle scuole sia facoltativo, che la religione non intervenga nel matrimonio come nella morte, nella cultura come nella comunicazione. In un paese laico la religione scaturisce da una fede personale, che ogni individuo deve poter praticare in totale indipendenza, grazie alla libertà che lo Stato gli riserva. Dal momento della loro indipendenza fino ai giorni nostri, tali condizioni non sono mai state osservate in nessuno Stato arabo».

Le analogie fra il trattamento da lui subito ed i classici metodi inquisitoriali nostrani sono piuttosto evidenti (la carcerazione irrituale, l’arbitrarietà dei giudicanti, l’uso della tortura, la negazione del diritto di difesa); altrettanto evidente è l’apparente stranezza di parte del racconto, nel quale si parla di conflitti di potere, di inquisitori incerti, ma anche di certe compiacenze dei carcerieri, che danno al racconto quasi un tono romanzesco.

Ai suoi accusatori Waleed oppone, con fierezza spinta a tratti fino all’arroganza, la richiesta di discutere sul Corano o su Maometto (poligamo bulimico; responsabile di crimini di guerra e contro l’umanità; ma anche di furti, stupri, saccheggi, schiavismo, commercio illecito di esseri umani, pedofilia, misoginia e razzismo nei confronti dei non musulmani) senza sacralizzarli; il tentativo di sradicare i perduranti tabù sulle scienze naturali, la chimica e la filosofia; la pretesa d’interpretare il passato senza le compiacenze della fede; e da qui la scoperta e presa di coscienza di un Islam criminale, di un Islam lontano dal mondo concreto della verità, dell’esistenza e dell’intelligenza, che deresponsabilizza i propri fedeli obbligandoli a rispettare la parola dei predicatori. Nelle sue parole: «Brandendo il bastone e la carota (dove il primo è l’Inferno e la seconda il Paradiso), la religione ci ha privato di tutte le nostre libertà fondamentali. Attraverso la Shari’a e la Sunna (la tradizione) ha annientato il ruolo dell’essere umano nella ricerca, nella scienza, nella scoperta e nella riflessione. I religiosi hanno prodotto generazioni di scriteriati dall’ignoranza sacralizzata, privati di futuro, di progresso, di altruismo, di dignità e di libertà».

Infine, poche pagine per il racconto del suo insediarsi in Francia ed una breve sintesi del suo impegno politico esitato nella fondazione del Consiglio degli ex musulmani di Francia, che al momento rappresenta il vertice delle sue iniziative.