Una breve riflessione sull’esperienza religiosa
di Francesco D’Alpa
[L'ATEO, 2/2019]
Qual è il rapporto fra religione e spiritualità? Quale la natura ed il significato del sentimento e dell’esperienza religiosa?
L’iconografia cristiana abbonda di rappresentazioni stereotipe, per nulla originali rispetto alle culture più arcaiche o coeve: un qualcosa (raggio di luce, colomba ...) che mira al fedele, assorto in atteggiamento di preghiera o anche in estasi; dunque un moto (intellettivo, sentimentale, passionale ...) che muove dall’esterno all’interno della persona. Non a caso, per i cristiani, la fede è un dono, e dio elargisce a suo piacere la “grazia”.
Alla base di questo scenario troviamo una concezione dualista (anima, corpo) o tripartita (spirito, anima, corpo) dell’essere umano, secondo la quale il corpo, necessario per il pieno svolgersi delle funzioni dell’anima, né è in qualche modo distinto (e quasi del tutto separabile durante l’estasi). Su questo presunto (o negato) rapporto fra corpo e spirito si sono versati (e la diatriba probabilmente non avrà mai fine) fiumi d’inchiostro. L’attuale terreno di dibattito è indubbiamente quello delle neuroscienze, che cercano di spiegare in termini coerenti e convincenti lo psichismo, ma non per questo scoraggiano gli spiritualisti puri.
Per comprendere le ragioni ed il senso dell’esperienza religiosa, a mio avviso bisogna innanzitutto abbandonare quasi del tutto l’argomento “religione” (nel senso di pratica codificata, tradizione, verità, norme ...) e concentrarsi sugli elementi comuni a tutte le religioni. Qual è la loro base e quale la loro funzione? Fra le mie letture ho trovato particolarmente stimolanti due testi, sia pure separati da un secolo: il classico ma sempre attuale Le varie forme dell’esperienza religiosa di William James (del 1902) ed il più recente Neuropsicologia dell’esperienza religiosa di Franco Fabbro (del 2010).
Il filo rosso che lega queste due opere è l’idea centrale che le esperienze religiose siano non delle astrattezze metafisiche, ma degli “stati di coscienza” (non a caso James parla di “natura umana”), comprensibili secondo James tramite l'indagine psicologica e secondo Fabbro sulla base delle neuroscienze, unita alla convinzione che l’esperienza religiosa sia essenziale per un sano sviluppo della personalità. Su questo ultimo punto è comunque opportuno non equivocare: nessuno dei due autori dà particolare rilievo di per sé ai dettati delle varie religioni (poste quasi su di un piano di interscambiabilità, come semplici varianti culturali), ed entrambi si interrogano invece sull’aspetto prettamente soggettivo.
Per James, l’esperienza religiosa, ma più in particolare la “crisi religiosa” adolescenziale, è un evento fondamentale della vita, la radice del comportamento e dell’adattamento sociale, e favorisce la piena integrazione del sé: in buona sostanza l’uomo religioso sembra potere essere il migliore degli uomini; per Fabbro la spiritualità (intesa nelle sue forme più raffinate) è innanzitutto espressione fondamentale della biologia umana.
Naturalmente si può non essere per nulla d’accordo, materialisticamente, con quest’ultima prospettiva. Quasi a contraddire l’impostazione di fondo pro-religione, al centro dell’esposizione di Fabbro troviamo non a caso un lungo capitolo su “la mistica e le sue tecniche”. L’estasi (argomento principe dei suoi studi) viene qui sostanzialmente presentata come il felice esito di una “tecnica” (variamente incorporata nelle diverse religioni), in grado di migliorare il funzionamento (o l’equilibrio) psicofisiologico della persona. Nei suoi fondamenti, questa tecnica è abbastanza sovrapponibile nelle diverse culture, e prevede innanzitutto (pur nella diversità delle pratiche) il distacco sensoriale e l’introspezione. L’agognato traguardo (raggiunto più o meno faticosamente, più o meno frequentemente) è uno stato di benessere interiore, descritto spesso come senso di “fusione con il cosmo”.
Ma l’estasi, ben lo sappiamo, non ha solo connotati religiosi: esistono infatti estasi amorose, letterarie, musicali, patriottiche ... L’essenza “biologica” (o neurofisiologica) dell’estasi non è infatti per nulla qualcosa di religioso; l’estasi non è un premio degli dèi. Per taluni aspetti è una vera e propria droga, che permette all’individuo di raggiungere (faticosamente!) ciò che è altrimenti (con le droghe) ben più a portata di mano, evitandone le ricadute negative farmacologiche. Con le sue caratteristiche di passività e di semplificazione dello psichismo, l’estasi appare (per alcuni suoi aspetti) come una vera e propria fase di ristoro dell’attività cerebrale: si potrebbe ben dire, come il sonno (e il sogno) lo è della veglia. Come ben sappiamo, il nostro psichismo non ha una origina extracorporea; tutto in noi dipende da una interazione fra il biologico e l‘ambiente esterno; tutto avviene sulla base di strutture cerebrali, di circuiti neurali, di mediatori chimici. E tutto ciò viene messo in gioco nell’esperienza religiosa e nell’estasi in particolare.
L’attribuzione ad influenze “divine” e “soprannaturali” degli eventi mentali è una pretesa delle religioni, in particolare di quella cattolica, tuttora ben radicata (con molta incoerenza) nel suo dualismo. Di ciò è ben consapevole (e non potrebbe essere altrimenti) Fabbro (James poteva porsi il problema solo fino ad un certo punto; ma comunque egli era più interessato agli aspetti strettamente psicologici); non a caso oltre un terzo del suo saggio riassume le più consolidate e le più recenti acquisizioni delle neuroscienze. Se l’uomo non è, grossolanamente, “ciò che mangia”, certamente è (fondamentalmente) ciò che “accade” nel suo cervello.
Un aspetto va particolarmente sottolineato: quel che ci insegnano oggi le neuroscienze (ben lungi dalle derive new-age) è che possiamo coscientemente controllare e modificare i nostri meccanismi mentali. In tal senso i trattati di mistica (in particolare quelli del cristianesimo) sono un prezioso forziere di conoscenze, qualora si guardi alla tecnica e non all’oggetto specifico della contemplazione. In non pochi di essi è perfettamente descritta (ad esempio in termini simbolici, come nel caso del “castello interiore” di Teresa d’Avila) la tecnica di deprivazione sensoriale e di “spegnimento” dell’Io tramite la preghiera (altre religioni hanno usato i “mantra”, le danze, le droghe ...). In tali casi, l’esito “mentale” dell’estasi non può che essere, relativisticamente, l’oggetto previsto e predefinito in base alla specifica culturale religiosa; ma la gratificazione è pressoché la medesima.
In definitiva, nel nostro cervello non c’è un posto predefinito per una generica divinità, tanto meno per uno specifico Dio o Dea. Che pensare allora di tutte quelle attività che sembrano (o sembravano) collegate al “colloquio” con la divinità? L’etologia potrebbe rispondere a questa domanda precisando innanzitutto che tutte queste strutture e funzioni non sono specifiche dell’uomo, anche se in lui mostrano una maggiore complessità: la devozione di un cane verso il suo padrone (tanto per fare un esempio con il quale ho una particolare familiarità) ha qualcosa di diverso (nell’atteggiamento psicologico, nelle posture, nel comportamento ...) da quella di un credente per il suo Dio? Si può affermare che la sua “coscienza” animale provi qualcosa di diverso? Che il rilascio dei suoi neuromediatori non accompagni parimenti i “moti dell’animo”? Indubbiamente la natura non ha fatto un “salto” fra l’animale e l’uomo: ogni essere è “religioso” a suo modo, senza alcuna necessità di ipotizzare un improbabile oggetto di contemplazione “soprannaturale”.
Ma torniamo al quesito iniziale: che valore possiamo dare all’esperienza religiosa? A mio parere (e nonostante le riserve cui ho accennato) difficilmente non le si potrebbe dare comunque un valore, anche nella nostra attuale società. La tematica è di grande portata; ed investe tutti gli aspetti della nostra cultura. Difficilmente (forse mai), credo, si potranno cancellare dalla nostra consapevolezza storica i prodotti del sentimento religioso più genuino (l’apertura al mistero, l’altruismo, la socialità ...), così come non si possono (e non si dovrebbero) cancellare dal paesaggio urbano le chiese ed i campanili. In quanto fusione di “natura” e “cultura” è invece doveroso domandarci il perché di ciò che sta ed avviene dentro di noi.
Nella mia esperienza di razionalista (e di ateo in quanto razionalista) sin dall’adolescenza (ovvero, ormai da mezzo secolo) mi appassiono di queste tematiche e debbo onestamente affermare che non mi sono sembrate mai superate dalla modernità. Tutto sta a saperle bene inquadrare, in particolare nella prospettiva storica. La sostanziale incommensurabilità del cosmo e del tempo suscitano ancora in me la curiosità del mistero; la musica (per me, la più sublime delle arti) mi emoziona e coinvolge come un tempo o ancor più ... ed è difficile non cogliere in ciò l’equivalente di un sentimento “religioso” ... ma del tutto umano, non altro che umano.