Editoriale
L'ATEO numero 5/2015
di Francesco DìAlpa
“Anima naturaliter christiana”, l’anima è naturalmente cristiana. Chi non conosce la celebre affermazione di Tertulliano (160-220 circa)? Affermazione che racchiude nella sua lapidaria semplicità alcuni concetti fondamentali della psicologia cristiana. Innanzittto, che esiste una ‘anima’, ovvero una parte dell’essere che travalica la stretta materialità; poi, che quest’anima è naturalmente religiosa, e che ha certezza immediata ed assoluta della verità del dio cristiano; una certezza che deriva tanto dalla conoscenza del mondo esteriore, quanto dalla propria intima riflessione. Non diversamente, tanto per citare un altro padre della chiesa, Agostino (354-430) scopriva il suo dio nei recessi più nascosti della memoria, intesa quale funzione dell’anima.
Proviamo ora a sostituire ‘anima’ con ‘mente’: termine più moderno, ma non solo. ‘Anima’ fa infatti riferimento ad un ‘dualismo’, la cui controparte inscindibile è il corpo; ‘mente’ fa invece riferimento ad un ‘monismo’ senza controparti, in quanto la mente esiste solo se esiste il cervello e se il cervello appartiene ad un corpo vivo. Alla psicologia, quale scienza dell’anima immateriale, si è definitivamete sostituita una scienza nuova che parla di struttura e funzione. Ed è a questa entità, la mente, che dobbiamo dunque fare ineludibile riferimento quando parliamo di religione e religiosità. La transizione ha tardato più che per altre scienze demolitrici dei miti, per svariati motivi: fra questi, la resistenza dei filosofi e dei teologi, avvezzi alle fumosità della trascendenza, e l’impossibilità di rendere ragione delle funzioni mentali a livello biologico. Ma alla fine ha vinto la scienza, e fra i suoi frutti possiamo oggi catalogare la moderna psicologia della religione. Che comunque non ha avuto per decenni vita facile, acquisendo una propria ‘rispettabilità scentifica’ con fatica ed in ritardo rispetto ad altre branche delle scienze umane. Da una parte infatti ha patito a lungo l’eccessiva vicinanza alle tematiche strettamente religiose, dall’altra è risultata troppo legata ad una difficilmente traducibile esperienza soggettiva; più o meno lo stesso problema cui era andata incontro la psicoanalisi.
Dei passaggi e dei frutti di questa lunga ed affascinante avventura mi limito a citare il primo importante testo di riferimento, capace di superare sia le pregiudizali teologiche che l’estrema razionalizzazione positivista: “The varieties of religious experience” (1902), di William James, primo studioso a concentrarsi sui rapporti fra personalità, socialità ed esperienza religiosa, sul significato della ‘crisi religiosa adolescenziale’ all’interno del processo di raggiungimento della maturità emozionale, e sull’importanza di un buon adattamento religioso quale presupposto di una soddisfacente socializzazione; ovviamente con tutti i limiti di un pregiudizio positivo riguardo la religiosità e la pratica religiosa.
Il campo di indagini si è presto allargato a dismisura, stringendo sempre più solide interrelazioni con altre branche del sapere, e con sempre maggiore attenzione alle dinamiche opposte della areligiosità, non più vista come condizione difettuale. Tanto per citare qualche esempio, per anni si sono studiati soprattutto i rapporti della religiosità e della pratica religiosa con la sessualità, la psicologia abnorme, la malattia mentale. Gli ultimi due decenni hanno segnato un improvvivo crescere degli studi sull’argomento, soprattutto sulla base delle possibilità offerte dai più recenti mezzi di indagine dell’attività cerebrale, che hanno consentito di visualizzare e mappare i correlati fisico-chimici di ciò che da sempre era sembrato inesplorabile.
Grazie a tecniche come la risonanza magnetica funzionale, si è potuto finalmente capire cosa avviene nel nostro cervello durante la preghiera, la meditazione, l’estasi mistica, l’autotrascendenza; ciò che la biologia materialista ottocentesca aveva sempre vagheggiato di potere acquisire, è ora alla portata di qualunque laboratorio attrezzato. Concetti come ‘volontà’, ‘conflitto’, ‘scelta’ vengono sempre più analizzati in termini di funzioni mentali, e reinterpretati come esiti di processi in atto entro sistemi neurali specificamente organizzati. Nel concreto, la religione, intesa come costruzione sociale, ha perso interesse rispetto all’indagine sui correlati dell’esperienza intima; ed il soprannaturale appare sempre più un miraggio o un sogno infantile dell’umanità.
Nel corso degli anni, la nostra rivista ha più volte toccato aspetti che rientrano in questa materia, probabilmente privilegiando la critica della psicopatologia religiosa. Questo numero ripercorre alcune tappe storiche dello studio ‘neuropsicologico’ dei fenomeni religiosi, ma soprattutto pone in primo piano le attuali spiegazioni psicologiche, etologiche, evoluzioniste delle credenze religiose: dunque si sofferma su ciò che è assolutamente umano (ovvero, anche o soprattutto biologico) nella irrazionalità, nella credenza, nella propensione alla religiosità; caratteristiche che sembrano per certi versi evoluzionisticamente vincenti, ma per altri fortemente limitative e gravide di conseguenze sul piano sociale ed etico. Buona lettura.