Lazzaro Spallanzani e gli infortuni dell’apologetica

di Francesco D’Alpa   (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.]

Pubblicato su L'ATEO, numero 3/2015

 

E’ ormai luogo comune della apologetica cattolica, specialmente dopo l’Enciclica ‘Fides et ratio’ di Giovanni Paolo II sostenere che non vi è incompatibilità fra scienza e fede. Ma la pubblicistica cattolica è andata oltre, sostenendo che la vera scienza (la migliore scienza) è quella ispirata dalla fede.  Ed a riprova di ciò viene citato un lungo elenco di scienziati ‘credenti’, di tutte le epoche e di varie discipline. Purtroppo, sostenere che ogni buon scienziato è tale proprio in quanto credente necessita di valide prove, ben al di là del fatto che si sia battezzati e praticanti.

In un precedente numero dell’ATEO [1], ho brevemente affrontato tale questione, recensendo un recente volumetto apologetico su Lazzaro Spallanzani e Gregor Mendel scritto da Francesco Agnoli ed Enzo Pennetta [2], autori tutt’altro che titolati, diciamolo subito, per discutere di storia della scienza.

In questo, come in altri volumi dello stesso Agnoli [3], si sostengono alcune tesi care ai credenti, ed in particolare che: non esiste conflitto fra fede e scienza; scienza e tecnologia sono ‘figlie ingrate’ del cattolicesimo; la Bibbia e la Chiesa hanno determinato questo primato; la scienza sperimentale non poteva che nascere fra i monoteismi e nell’occidente cristiano; la maggior parte degli scienziati dei secoli passati erano uomini di fede (la quasi totalità cristiani, moltissimi cattolici, tanti i sacerdoti ed i membri di ordini religiosi); Spallanzani, Copernico, Mendel e tanti altri probabilmente non sarebbero diventati scienziati se non fossero stati guidati dalla fede.

Nella suddetta recensione mi sono volutamente astenuto dall’analizzare il ritratto apologetico di Spallanzani, celebrato quale “religioso e scienziato”, o meglio “scienziato guidato dalla fede”. Riprendo dunque ora il filo del discorso, non senza aver prima sottolineato come già il sottotitolo del volume in questione sia squalificante per gli autori che candidamente declamano “Alle origini della Biologia e della genetica”. Orbene, se Mendel è certamente alle origini della genetica (anche se con molte riserve da parte di alcuni genetisti), certamente Spallanzani non lo è riguardo alla biologia, che vanta invece una lunghissima tradizione, a partire almeno (tanto per fare un nome) da Aristotele, e la cui grande fioritura precede Spallanzani di almeno un secolo; al più Spallanzani può essere considerato alle origini della ‘biologia sperimentale’.

Poiché intendo solo confutare le tesi di Pennetta (che in questo volume ha redatto la sezione sul grande biologo), leggiamo innanzitutto quanto egli scrive polemicamente, tenendo ben presente che su Spallanzani esiste molto materiale sia di propria mano che biografico, e dunque il confronto non appare particolarmente difficile. L’argomento fondamentale di Pennetta è la presunta ‘damnatio memoriae’ di Spallanzani, in qualche modo certificata dall’assenza di sue citazioni nella ‘Storia del pensiero scientifico e filosofico’ di Ludovico Geymonat (peraltro, la sola ‘storia’ delle scienza da lui citata). L’importanza di Spallanzani sarebbe invece dimostrata, secondo Pennetta, proprio dal fatto che perfino il detestabile ateo Voltaire lo elogiava personalmente come uno dei grandi geni del suo tempo.

Va detto che Pennetta basa il suo piccolo scritto soprattutto (o quasi del tutto) su di una superficiale lettura di una celebre biografia di Spallanzani, scritta da Jean Rostand, figlio del celebre commediografo [4]. Sennonché Rostand racconta di uno Spallanzani “alle origini della biologia sperimentale”, ma non dice nulla (ed evidentemente non gliene importa nulla) dello Spallanzani uomo di Chiesa.

Inoltre qui Pennetta compie un errore di prospettiva, in quanto, guarda caso, anche Rostand come Voltaire (ma ciò non viene detto) era ateo, e questo già da solo depone contro la presunta intenzionale “damnatio memoriae” anticattolica (che infatti non risulta dalla lettura delle più note storie della scienza, nelle quali lo scienziato è ampiamente citato ed onorato).

Non è assolutamente il caso, qui, di illustrare la grandezza di Spallanzani e quale fondamentale impulso abbia dato alla biologia sperimentale; ciò è ben noto. Quello che intendo confutare è l’assunto che egli sia stato grande in quanto ‘credente’ ed ancor più in quanto ‘religioso’.

Che legame troviamo infatti, nella vita di Spallanzani, fra la sua fede, la sua carriera religiosa e quella scientifica? Atteniamoci alle biografie più attendibili. La prima in assoluto viene pubblicata a Milano nel 1800; è scritta dal medico francese J. Tourdes, suo allievo, e che gli è stato vicino per molti anni e fino alla morte (fra l’altro ne ha descritta l’agonia) [5].

All’epoca, per come leggiamo nella presentazione, Spallanzani è universalmente stimato come “uno dei più abili e ingegnosi indagatori della natura” (p. 49), come “il più celebre tra i naturalisti de’ nostri giorni” (p. 3). Tourdes gli rende grande elogi: “ Spallanzani  riceveva personalmente dai suoi contemporanei  i complimenti più meritati, e gli elogi più lusinghieri. Nessun uomo di lettere, nessun amante delle arti percorreva l’Italia senza presentare i suoi omaggi al naturalista di Scandiano“ (p. 101). Tuttavia, a differenza dell’interesse che prova per il curriculum scientifico del suo maestro, Tourdes accenna solo due volte alla vita religiosa di Spallanzani. Una prima, descrivendo la sua carriera scolastica: “A quindici anni lo si inviò a Reggio, dove studiò la retorica e la filosofia, sotto la direzione dei Gesuiti. I suoi rapidi progressi attirarono l’attenzione dei suoi maestri, che, al pari dei Domenicani, lo giudicarono degno di sostenere la gloria del loro ordine; ma l’allievo rifiutò ogni genere di coinvolgimento” (pp. 9-10). La seconda, raccontando dei giorni che ne precedettero la morte, allorché egli attese ai suoi “doveri di religione” (p. 99). Tutto qui. Nell’opera di Tourdes non c’è proprio alcun accenno a quella ‘carriera ecclesiastica” di Spallanzani, che pure in un certo senso c’è stata; e ben lo sappiamo. Vediamo allora come in effetti sono andate le cose, e perché ciò non ha comunque alcuna rilevanza rispetto alla sua vita scientifica.

Secondo quanto scrivono comunemente i biografi, all’età di nove anni Spallanzani ‘veste l’abito clericale’; a quindici anni va a studiare presso i Gesuiti di Reggio Emilia, ma in seguito rifiuta il loro invito e quello dei Domenicani ad entrare nel loro ordine religioso; a venticinque anni (nel 1754) prende (per evidente opportunismo) gli ordini minori, requisito indispensabile per insegnare filosofia e letteratura al Collegio (cattolico) di Reggio Emilia; a trentaquattro anni, grazie ad una dispensa papale ad hoc (e a potenti raccomandazioni!) ottiene l’ordinazione sacerdotale, ancora una volta requisito indispensabile per ottenere la cattedra di fisica e matematica  al Collegio (cattolico) San Carlo di Modena. Nonostante ciò, Spallanzani, di fatto, non sarà mai uno ‘scienziato in abito talare’.

La sua carriera ecclesiastica, se vogliamo, mostra evidenti analogie con quella di Mendel, la cui passione per le scienze non è certo nata nel convento, come sostiene Agnoli, in quanto già da adolescente egli nutriva un grande interesse per gli studi naturalistici, ed entrò in convento (come molti facevano a quei tempi) proprio per potersi pagare gli studi cui ambiva.

Il diverso modo di narrare la vita di Spallanzani è ovviamente di grande interesse per il discorso contro-apologetico. Secondo l’ateo Rostand “nel 1754, poco dopo aver ricevuto gli ordini minori, è nominato professore di filosofia e letteratura al Collegio di Reggio. Successivamente, nel 1760, ha l’incarico di insegnare fisica e matematica al Collegio San Carlo di Modena” (p. 11).

Il Pennetta dice qualcosa di più: “Ma quella di Reggio non era la sistemazione definitiva che egli sognava. Fu così che decise di proporsi al Collegio di S. Carlo e all’Università di Modena: in entrambi i casi era però richiesto un passo successivo nella sua carriera ecclesiastica. Sebbene vestisse l’abito clericale dall’età di nove anni, Spallanzani non aveva mai compiuto il passo definitivo verso l’ordinazione sacerdotale, e per accedere all’insegnamento presso quelle due istituzioni era necessario compierlo, dunque, dopo 21 anni di vita religiosa, decise di proporsi in tale direzione. Ma Spallanzani aveva indugiato troppo a lungo e quando decise per il sacerdozio aveva ormai trentatré anni mentre il regolamento in materia indicava in ventisei anni il limite massimo per divenire sacerdote. Per ottenere una dispensa da questo limite il Vescovo di Reggio, Mons. Castelvetri, scrisse al papa Clemente XIII che in pochissimi giorni la concesse. Spallanzani potè quindi ottenere per l’anno accademico 1763-1764 l’incarico presso l’Università di Modena” (p. 19). Una bella storia di raccomandazioni e di opportunismo, non c’è che dire! Ma dell’abito talare Spallanzani non saprà in seguito che farsene ed anzi darà non pochi dispiaceri al suo protettore, imboccando strade diverse da quelle previste.

Non sarà certo un caso il fatto che fra i numerosissimi scritti di Spallanzani ne sia elencato uno solo di contenuto religioso, ed è proprio il suo primo lavoro a stampa, una tesi collegiale, datata 1759, dal titolo più che eloquente “Theses physico-mathematicae quas Deipare Virgini sine labe conceptae humillime devovet” [6]

Potremmo quasi definirlo un incidente di percorso, poco più che un obbligo di circostanza, verso i suoi protettori clericali. Per tutto il resto, lo Spallanzani scienziato si cura davvero poco o nulla delle questioni teologiche: segue il metodo galileiano, e paradossalmente Pennetta definisce ciò un merito, in quanto “Spallanzani fu galileiano fin nel profondo nella sua ferma convinzione che le teorie non supportate dai risultati sperimentali non potessero essere accettate” ( p. 42-43). Forse non a caso, quando si imbatte nel problema dell’anima Spallanzani lo scansa. Pennetta riassume così la vicenda: “c’era un’altra questione importante che veniva sollevata col taglio dell’Idra e con quello delle teste delle lumache, una questione che oggi potrebbe sembrare quantomeno ‘strana’: se l’anima è una e indivisibile, cosa accade dell’anima dell’Idra e di quella delle lumache al momento del taglio? Della questione non se ne occuparono i naturalisti con l’abito religioso. Spallanzani, infatti, non si fece coinvolgere da queste dispute, come invece fece l’immancabile Voltaire” (p. 31). Il quale Voltaire ovviamente non credeva all’anima, e ne argomentava l’assenza. Spallanzani invece si asteneva dalla questione, perché evidentemente non avrebbe potuto conciliare scienza e fede; Pennetta fa finta di non capirlo?

D’altra parte Spallanzani era ben poco propenso a rispettare l’ordine divino della natura: inventò letteralmente l’inseminazione artificiale, si divertiva a vivisezionare ogni genere di bestioline, e via dicendo. Non a caso, Ernst Hoffmann chiamò Spallanzani uno dei personaggi del suo racconto ‘L’uomo della sabbia’, del 1815. Pennetta lo cita a testimonianza di quanto fosse grande a quei tempi la fama dello scienziato; ma, a ben leggere il racconto , codesto personaggio è abbastanza sinistro. Hoffmann lo descrive come “abile meccanico e costruttore di automi”, colpevole di “avere introdotto tra la società degli uomini un automa”; descrizione non lontana da un certo ritratto di Spallanzani, sperimentatore feroce e implacabile vivisezionatore; assai simile al Frankenstein, ovvero al Moderno Prometeo di Mary Shelley: indagatore del principio vitale, creatore di una nuova vita, ma anche individuo che viola consapevolmente un comando divino.

Che dire in definitiva del caso Spallanzani, e più in generale del preteso ruolo della religione nel discorso scientifico? A mio avviso, occorrerebbe porsi, caso per caso, almeno le seguenti domande: che tipo di credenti sono gli scienziati credenti? in cosa credono?  che ruolo ha la fede nel loro lavoro? tengono distinti i due ambiti? cercano una conferma dei dati biblici e degli assunti teologici? come reagiscono alle ovvie incongruenze fra di essi? argomenti sui quali avrò certo modo di tornare.

Nel caso di Spallanzani, per come evidente, le risposte a questi quesiti sono tutte contrarie alle ipotesi dei propagandisti ed apologeti.

 

 

Riferimenti

[1] L’Ateo, n. 98 (1/2015), p. 16

[2] F. Agnoli, E. Pennetta: Lazzaro Spallanzani e Gregor Mendel. Alle origini della Biologia e della Genetica. Cantagalli, Siena, 2012

[3] In particolare: F. Agnoli “Scienziati, dunque credenti”, Cantagalli, Siena, 2012

[4]  J. Rostand: Lazzaro Spallanzani e le origini della scienza sperimentale. Einaudi, Torino, 1967

[5] Tourdes J.: Notices sur la vie lettéraire de Lazare Spallanzani. Tipografia Mainardi, Milano, 1800.

[6]  Notizie biografiche in continuazione della Biblioteca modonese del Cavaliere abate Girolamo Tiraboschi. Tomo IV. Tipografia Torregiani e compagno. Reggio, 1835, p. 310.

 

 

 


 

A dimostrazione della importanza che le enciclopedie scientifiche hanno sempre dato all’opera ed alla figura umana di Lazzaro Spallanzani scienziato (e nel contempo ignorato del tutto il ruolo della religione nella sua vita) proponiamo un estratto della più importante enciclopedia medico-chirurgica pubblicata nell’Ottocento.

 

SPALLANZANI (Lazzaro). Non esiste alcun sapiente che, senza essere medico, abbia reso maggiori servizi alla medicina. Nato il 12 gennaio 1729 a Scandiano (nei pressi di Modena) Spallanzani iniziò la sua educazione sotto la direzione del padre, illustre giureconsulto, e fu avviato, verso l’età di quindici anni, presso i gesuiti, che gli insegnarono la retorica e la filosofia. I gesuiti e anche i domenicani cercarono vanamente di accoglierlo nel loro ordine. Egli entrò all’Università di Bologna. Destinato a seguire la professione paterna, si mise coscienziosamente allo studio del diritto, ma si dedicò maggiormente a quello delle scienze naturali, che avevano per lui un fascino irresistibile; e seguì notoriamente i corsi della cugina Laura Bassi, che esercitava la fisica sperimentale. Nello stesso tempo apprese la lingua greca e la lingua francese, e si nutrì della lettura dei grandi scrittori. I successi che ottenne in ogni campo gli diedero una notorietà precoce, e la scuola sui cui banchi era stato seduto lo vide tornare a ventisei anni quale professore di lettere e filosofia. Ma pur compiendo i suoi doveri, non cessò di dedicarsi allo studio della fisica e della fisiologia ed è a Reggio, dove esercitò per sei anni, che cominciò le sue esperienze sugli animuncoli infusori, e raccolse i materiali per l’opera che pubblicò più tardi a Pavia. Da Reggio passò all’Università di Modena, ed infine nel 1780 fu chiamato a quella di Pavia, per insegnarvi storia naturale; qui morì per apoplessia, il 12 febbraio 1799, dopo nove giorni di malattia, durante i quali riprese conoscenza per alcuni momenti. Durante questa malattia aveva ricevuto le cure di Scarpa, di Brera e soprattutto di J. Tourdes, suo allievo e amico, padre di M.G. Tourdes, l’eminente decano della facoltà di Nancy, collaboratore del “Dictionnaire encyclopédique”. Tourdes ha pubblicato a Milano, nel 1800, un piccolo volume di 180 pagine sulla vita letteraria e scientifica di Spallanzani, molto raro ai giorni nostri, che è una eccellente guida da leggere per avere informazioni sul grande sapiente italiano  […] la gloria del suo nome sarà sempre legata a quei suoi lavori che trattano di fisiologia. In questo ambito, la fecondità del suo spirito è impressionante. Vi si scorgono tante di quelle nuove idee da non avere il tempo di verificarle sperimentalmente, ed egli si dovette talvolta accontentare di sottoporle alla riflessione di altri sapienti.

 

Dictionnaire encyclopédique des sciences médicales. Vol. 89 (Terza serie, volume decimo). P Asselin, G. Masson Editori, Parigi, 1881, pp. 733-734