La pena di morte nel Catechismo della Chiesa Cattolica
(1992-1997)

Il “Catechismo della Chiesa Cattolica”, pubblicato nel 1992, è il documento di maggiore importanza del pontificato di Giovanni Paolo II, ma anche il più contestato a causa di alcune messe a punto dottrinarie, quale appunto quella sulla pena in genere, della quale si sostiene: (a) che sia proporzionata alla gravità del delitto; (b) che assuma valore di espiazione, se accettata volontariamente dal colpevole; (c) che ripari il disordine introdotto dalla colpa; (d) che serva a reprimere il crimine; (e) che contribuisca alla correzione del colpevole; (f) che difenda l’ordine pubblico e tuteli la sicurezza delle persone; (g) che vada inflitta dalla legittima autorità pubblica.

che fra il 1992 (data della pubblicazione del “Catechismo”) ed il 1997, innumerevoli proposte di correzione hanno portato a vari aggiustamenti, fra i quali quelli riguardanti le questioni della pena di morte e del rispetto del mondo animale, due argomenti sui quali la Chiesa non aveva mai prima d’ora concesso nulla.

Fra più di un centinaio di modifiche resesi necessarie a causa delle obiezioni e critiche sollevate da più parti, spiccano quelle relative proprio alla pena di morte, divenuta oramai quasi l’argomento di maggiore interesse per comprendere quale strada segua la catechesi.

Ed in effetti, i numeri 2266 e 2267 appaiono riformulati sulla base della “Evangelium Vitae”. Il riferimento alla pena di morte (tuttora ammessa ‘in casi di estrema gravità’) scompare dall’articolo 2266, e viene discusso nel 2267: ma qui la pena di morte viene considerata solo una ‘misura limite’, applicabile in casi ‘molto rari’, ed a condizione che siano determinate appieno l’identità e la responsabilità del colpevole, e che questa sia l’unica via possibile per difendere effettivamente le vite umane contro l’ingiusto aggressore.

 

Catechismo”, 1992

Editio Tipica”, 1997

«[2266] Difendere il bene comune della società esige che si ponga l’aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, l’insegnamento tradizionale della Chiesa ha riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere in casi di estrema gravità, la pena di morte. Per analoghi motivi, i detentori dell’autorità hanno il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità. La pena ha co­me primo scopo di riparare al disordi­ne introdotto dalla colpa. Quando è vo­lontariamente accettata dal colpevole, la pena ha valore dì espiazione. Inol­tre, la pena ha lo scopo dì difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone. Infine, la pena ha valore medicinale: nella misura del possibile, es­sa deve contribuire alla correzione del colpevole».

«[2266] Corrisponde ad un'esigenza di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell'uomo e delle regole fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto. La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l'ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole». 

«[2267] Se i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere le vite umane dall'aggressore e per proteggere l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana».

«[2267] L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana.

Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti.

 

Ancora una volta, manca in questo documento ufficiale una qualunque frase che definisca la pena di morte ‘non conforme alla dignità della persona umana’ o ‘non conforme al volere divino’; semplicemente si auspica (in uno spirito più ‘politically correct’ che teologico ed evangelico) l’uso di mezzi di difesa ‘più conformi alla dignità della natura umana’. Così, ancora una volta, il campo interpretativo dell’articolo è vago e assolutamente discrezionale. Nel sostenere inoltre che ‘oggi, tuttavia, tale principio non trova praticamente alcuna giusta applicazione’ in un certo qual modo si assolvono quanti in passato hanno fatto uso ‘legalmente’ della pena di morte (ecclesiastici e papato inclusi).

Dal punto di vista teologico ci si può comunque sempre chiedere se la nuova formulazione dipenda da un ‘ascolto più attento della parola di Dio’ (ma erano necessari quasi duemila anni prima di giungere a ciò?) o invece, come pare ovvio, da un adattamento tardivo allo spirito dei tempi.