Sul corpo di Eluana, dimenticando l’anima

Grazie ad una storica sentenza della Corte di Cassazione, forse potrà finalmente aver fine, nel pieno rispetto della “legalità”, l’odissea del povero corpo di Eluana Englaro, condannato a sedici anni di inutile sopravvivenza biologica, in ossequio ad un presunto “rispetto della vita”, che poco o nulla ha a che fare con lo stato vegetativo persistente, che consiste invece in una condizione artificiale e disumana, senza alcuna speranza di una sia pur minima ripresa di una vera “vita umana”.
Tutti gli spiriti liberi e perfino i cattolici di buon senso non possono che applaudire questa decisione liberatoria, che inevitabilmente inasprirà il dibattito sui temi caldi della bioetica. A tal proposito è opportuno ricordare che perfino molti teologi, in un passato recente, hanno ritenuto la desistenza terapeutica assolutamente legittima, moralmente accettabile perfino in casi in cui era mantenuta la coscienza, ed in linea con il rispetto della dignità umana; e ciò proprio rispecchiando un atteggiamento clericale piuttosto critico verso la disumanizzazione della medicina indotta dal “tecnicismo”.
Oggi invece, paradossalmente, è proprio il clero ad invocare questo tecnicismo senza speranza (sia pure definendolo, ipocritamente, semplice “assistenza ordinaria”), mentre la classe medica appare sempre più favorevole alle pratiche cosiddette di “eutanasia passiva” (perfino l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 1978, ha invitato i medici a non violare il “diritto di morire” che appartiene ad ogni uomo).
Individui come Eluana hanno infatti perduto, con assoluta certezza, ciò che costituiva il proprio “essere uomo” (il pensiero, la coscienza, la volontà) ed il loro corpo continua in qualche modo a funzionare solo perché gli viene fornito un continuo ed adeguato supporto medico-assistenziale.
Il comune sentire non ha difficoltà a considerare chi si trovi in questo stato come formalmente morto; tanto è vero che, secondo alcuni sondaggi, oltre il 60% degli italiani è favorevole a pratiche di eutanasia passiva ed un numero crescente di anestesisti e rianimatori ammettono di avervi fatto ricorso o addirittura di avere somministrato farmaci letali.
La stessa chiesa, da parte sua, ha interpretato il comandamento “non uccidere” anche come obbligo di provvedere alla propria vita ed alla propria salute, ma solo per quanto riguarda le cure “ordinarie”; per quelle straordinarie, caratterizzate da rischio, rarità, dolorosità o costo, ha invece ammesso sempre la possibilità di rifiutarle. Ma i suoi insegnamenti appaiono contraddittori: mentre l’attualeCatechismo non lascia alcuno spazio alla possibilità di sospendere il supporto vitale nei soggetti in stato vegetativo persistente, Giovanni Paolo II ha sostenuto che è lecito sospendere l’applicazione delle cure, secondo il giusto desiderio del malato e dei suoi cari, quando i risultati non rispondono alle aspettative (salvo a rendere impraticabile questo diritto, negando che idratazione ed alimentazione artificiale siano vere cure mediche).
Di fronte a quella che potrebbe essere finalmente l’ultima sentenza sul caso Englaro, (e la prima di un nuovo corso sui temi caldi della bioetica), il contrattacco del Vaticano non si farà certo attendere; anzi, per la verità, è in atto già da tempo, su tutti i media, con l’accusa di “assassinio” non più semplicemente sussurrata.
Assassini i giudici, oggi; assassino il padre, domani. Come hanno già detto e scritto il cardinale Barragan e Avvenire, questa sarà “la prima condanna a morte della Repubblica italiana” (ma non ricordano codesti signori che la chiesa legittimava “teologicamente” la pena di morte fino a pochi anni orsono, e che molti nel clero hanno contestato la sua rimozione dal codice penale della Repubblica?).
Ora deve preoccuparci l’accentuarsi e l’inasprirsi, in tale occasione, dell’invadenza delle gerarchie vaticane sulla nostra vita e sul nostro sistema legislativo. Ma in attesa di leggere tutte le accuse che i clericali muoveranno contro quei poveri giudici incuranti delle “leggi naturali” e dei “decreti divini”, perché non guardare in casa loro?
Forse se ne sono accorti in pochi, ma Eluana e la sua famiglia non sono le uniche vittime di questi sedici anni di battaglie giudiziarie. Probabilmente, da anni, è già morta l’anima di Eluana. Abbiamo infatti sentito parlare sempre di “alimentazione e nutrizione artificiale”, ma quante volte abbiamo sentito parlare di “anima”, dell’anima di Eluana?
La chiesa si preoccupa sempre più del corpo, invoca una accanimento tecnologico che non potrà mai essere produttivo di ualcosa di “terreno”, ma sembra dimenticare l’essenza del suo insegnamento: guidarci all’aldilà. Perchè non si occupa maggiormente di questo, consentendo finalmente a queste anime prigioniere di liberarsi dalla prigione della materia? Perché non ci spiega dov’è e cosa fa l’anima di Eluana?

Francesco D’Alpa

Pubblicato su: www.uaar.it (14 novembre 2008)